Je suis PAS Charlie

di ilcorsarobianco

Ieri sera sono tornato in Francia dopo venti giorni.

Non ho mai visto tutta questa gente a Aix-en-Provence, non l’ho mai vista tutta insieme e così uguale, con gli stessi volti, le stesse parole, magliette, braccialetti, spille, candele.

Sono andato verso il centro della piazza che ospita la Mairie perché mi era sembrato di intendere “Charlie, inshallah”. “Inshallah”, come mi hanno insegnato i venditori di sigarette di contrabbando di Barbès, significa pressappoco “Se dio vuole”, “A dio piacendo”, ma si usa comunemente per salutare qualcuno.

Invece, non accadeva nulla di tutto questo e la frase gridata dalla folla era: “Charlie c’est moi”. Come tornato con i piedi per terra dopo una allucinazione ho cominciato a guardarmi intorno e uomini con le candele in mano gridavano d’essere Charlie. Mi sono girato ancora e una donna recitava un preghiera abbracciata a sua figlia.

Eppure sono un giornalista, eppure credo ciecamente nella libertà, eppure sono occidentale, francese d’adozione o “d’abitazione”, eppure sono legato alla satira come a molte altre forme tipiche della nostra cultura, a cui dedico la mia vita. E allora? E allora non sono Charlie, doppiamente, sia perché un attentato non ha niente a che vedere con la cultura, l’identità, la libertà, nulla a che vedere con l’umano tout court, sia perché trovo inquietante, pericoloso, persino macabro definirsi in una situazione come questa. L’affermazione culturale, identitaria, non ha bisogno delle tragedie, e soprattutto non ha bisogno di questa spettacolarizzazione. Ieri ho letto addirittura di un video fatto in diretta dell’inseguimento dei terroristi, mi è sembrato di vivere un film, una narrazione talmente massiccia da ricoprire completamente la realtà, dove la realtà non è altro che materiale di bassa lega per una storia raccontata in tempo reale.

Definirsi ora, con i corpi ancora caldi nelle bare, con il sangue ancora rappreso sui marciapiedi è pericoloso. Soprattutto, definirsi ora, e non ogni giorno davanti a milioni di persone che muoiono sotto i proiettili della fame, della disoccupazione, della precarietà,  delle guerre preventive, additare il terrorismo come qualcosa che appartiene a un altro da Noi è pericoloso. Questo è allontanare ancor di più il momento dell’autocritica, della riflessione collettiva.

Il terrorismo non esiste oggettivamente, perché il terrorismo siamo noi, viviamo di un terrorismo in tono minore, a basse vibrazioni, che ha fatto registrare un acuto; il terrorismo è la nostra isteria quotidiana. Seguiranno altre scosse e poi tornerà a tonalità talmente gravi da diventare impercettibile sottofondo.

I morti sono morti, ma adesso non bisogna metterli, imbalsamati, nella vetrina dell’occidente tirata a nuovo per l’occasione, non basta rispolverare vecchi slogan, non basta versare secchiate di colla sociale utile al prossimo giro elettorale, bisogna cominciare a riflettere su quanto Charlie sia soltanto una concrezione d’orrore che vive diluito nella nostra quotidianità, di cui siamo allo stesso modo vittime e responsabili. L’unico tributo che onorerà queste tredici persone e tutte quelle che nelle prossime ore faranno la stessa fine sarà quello di una riflessione collettiva e lontana da sensazionalismi, profonda e instancabile, onesta e proficua. Je suis pas Charlie, désolé.

Un esempio (estremo, certo, per la sua stupidità) di come i puri sentimenti e i sensazionalismi possano essere pericolosi

Un esempio (estremo, certo, per la sua stupidità) di come i puri sentimenti e i sensazionalismi possano essere pericolosi